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A Roma, com’è noto, la devozione mariana è storicamente fortissima, anche se oggi, in epoca dominata dal materialismo nichilista e tecno-scientista ed essendo ormai la “città eterna” una moderna metropoli multietnica, tale sentimento appare piuttosto sbiadito e purtroppo in larga parte anacronistico. Ne rimangono testimonianza le innumerevoli edicole mariane (le cosiddette “madonnelle”), risalenti a diverse epoche, spesso antiche e depositarie di leggende popolari. Talvolta si tratta di opere più recenti, come quella che prospetta sulla bellissima Piazza Campitelli, nei pressi del Teatro Marcello, all’incrocio fra Via Cavalletti e Via de’ Funari: realizzata negli anni ’20 del Novecento – come celebrazione di un’apparizione della Vergine – colpisce lo sguardo profondo e realistico, lievemente malinconico, che scruta il passante e sembra volerlo invitare alla riflessione.
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La magnifica volta affrescata della Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola (XVII sec.) a Roma, capolavoro tardo barocco del pittore gesuita di origine tridentina Andrea Pozzo, che la realizzò alla fine del Seicento. L’opera celebra l’attività apostolica della “Compagnia di Gesù” nei continenti del mondo (Europa, Asia, Africa, America), fra cui non figura l’Australia, a quel tempo ancora in buona parte sconosciuta.
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La Basilica di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, custodisce la Cappella Carafa, voluta dal cardinale e grande mecenate Oliviero Carafa alla fine del Quattrocento e nota per il magnifico affresco di Filippino Lippi che lo eseguì fra il 1488 e il 1493 (fu la prima opera romana del pittore toscano).
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L’unicorno è un simbolo ricorrente nell’iconologia del casato dei Farnese, di cui si vede bene l’immancabile giglio al centro dell’immagine. Qui siamo nel suggestivo Castello Orsini a Vasanello (in cui visse Giulia Farnese, “la bella”, sposa di Orsino Orsini), che custodisce diversi esempi di unicorni, nelle varie sfaccettature stilistiche che quest’animale fantastico presenta rispetto alle sue molteplici raffigurazioni.
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Un particolare degli affreschi trecenteschi del Sacro Speco di Subiaco, noti per essere uno degli episodi più significativi della pittura medievale nel Lazio. In quest’immagine notiamo una rara scena profana – ancorché perfettamente inserita in un tema religioso – che descrive attività legate all’agricoltura e al ciclo delle stagioni.
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Costruito nel XIV secolo forse dai Francescani, l’Eremo di San Sebastiano domina, con le sue forme romaniche, un piccolo terrazzo naturale dei Monti Sabini e conserva al suo interno resti di affreschi attribuiti al pittore locale Girolamo Troppa. Si trova nel Comune di Torri in Sabina, più precisamente nelle vicinanze del suggestivo borgo medievale di Rocchette, da cui si può raggiungere tramite un breve ma ripido sentiero. Di recente l’edificio è stato sottoposto a restauro, tuttora in corso. Auspichiamo che i lavori di risistemazione degli spazi esterni vengano svolti con estrema attenzione al rispetto della bellezza del luogo.
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Un particolare toccante dell’affresco, probabilmente trecentesco, che ritrae la Strage degli Innocenti, nella romanica Chiesa di San Flaviano a Montefiascone: situata proprio sulla Francigena, si tratta di un monumento che incanta per la bellezza – ancora poco conosciuta – dei suoi cicli pittorici. Un’immagine che nel suo significato risulta sempre attuale, poiché oggi come in passato il Potere non si fa certo scrupoli di trucidare innocenti per raggiungere i propri scopi.
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Anticoli Corrado è un borgo delizioso e appartato alle pendici dei Monti Ruffi. Fu amato dai viaggiatori europei del tardo Grand Tour, soprattutto dai pittori per via del paesaggio nonché dei “volti” del luogo, che ritrassero in numerosi dipinti, tant’è che le “muse di Anticoli” divennero talvolta vere e proprie modelle o persino artiste esse stesse. Ricco di scorci pittoreschi e sede di un interessante museo dedicato agli artisti che vi furono attivi, Anticoli ancora oggi ammalia per i suoi panorami dove lo sguardo spazia indisturbato sull’integra Media Valle dell’Aniene, vero “polmone verde” ai margini dell’area metropolitana di Roma. Un paese dunque che sintetizza il “gusto per il bello” a 360° (natura, arte, architettura, corpo, sensualità) che caratterizzava le nostre terre fino a non molto tempo fa, e che andrebbe valorizzato in un’ottica di turismo culturale di alto livello.
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Nel Cicolano – terra appenninica sottratta amministrativamente all’Abruzzo nel 1927 – sono diffuse tipologie architettoniche altrove rare nel Lazio. Una di esse è costituita da edifici con facciata dipinta, sia chiese che abitazioni private: qui siamo a Petrella Salto ove un antico palazzetto mostra i segni consunti di questa particolarità e che andrebbe decisamente restaurato per il suo valore artistico.
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La volta affrescata della Chiesa di Santa Maria dell’Assunta ad Amaseno, del XII secolo. Si tratta di una delle chiese più belle del Lazio meridionale, ove nitido risulta lo stile gotico-cistercense. Nella struttura alcuni elementi misteriosofici richiamano la presenza dei Cavalieri del Tempio, i quali com’è noto furono assai attivi nel Basso Lazio. Inoltre l’edificio sacro è noto per il “miracolo del sangue” di San Lorenzo, che si scioglie ogni 10 agosto in occasione della ricorrenza del Santo. Per saperne di più: “Lazio. I luoghi del mistero e dell’insolito”.
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Nel cuore di Roma, a Caracalla, la piccola Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, di origine paleocristiana (IV sec.), custodisce uno straordinario ciclo di affreschi ad opera del Pomarancio (XVI sec.), che descrive, con un malcelato gusto orrorifico, alcune scene di martiri (nella foto vediamo il supplizio di San Simone). Fa un certo effetto oggi – in un’epoca di ipocondrie e deliri collettivi – immaginare personaggi che accettarono di morire in maniera così atroce pur di non rinnegare l’ideale della propria fede…
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Oggi consideriamo la svastica un emblema nazista ma in realtà si tratta di un simbolo antichissimo con un significato del tutto positivo, attinente al bene e al sole, mantenutosi nella cultura cristiana. Eccolo campeggiare sul soffitto del Duomo dei Santi Giovanni e Paolo a Ferentino.
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Come in un “paesaggio metafisico” di De Chirico, la medievale Tarquinia si staglia con le sue nude e nette architetture in una campagna estiva altrettanto essenziale che fu celebrata dal poeta Cardarelli, mentre sullo sfondo appare il Tirreno. Quest’immagine è dunque un’esemplare sintesi fra paesaggio e richiami storici-pittorici-letterali, secondo “convivenze”, o meglio “simbiosi estetiche”, assai diffuse nella nostra regione e che andrebbero adeguatamente valorizzate e fatte conoscere al grande pubblico turistico tramite parchi culturali e letterari. Per sapere di più della Tarquinia misteriosa si faccia riferimento alla nuova edizione della nostra guida “Lazio. I luoghi del mistero e dell’insolito“.
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Il simbolo del Pegaso (come quello dell’unicorno) fa parte dell'”iconologia magica” rinascimentale e ritorna spesso nelle dimore cinquecentesche. Qui siamo a Villa Lante di Bagnaia, presso Viterbo: l’affresco con il Pegaso appare in una delle due eleganti palazzine che coinvolge il complesso gentilizio.
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Tutti conoscono il Sacro Speco di Subiaco per la figura di San Benedetto, per la sua architettura rupestre, per il suo suggestivo paesaggio. Ma questo monastero abbarbicato su una falesia a strapiombo sulla Valle dell’Aniene è anche uno straordinario “serbatorio” della pittura medievale del Lazio e del Centro Italia. Nella foto vediamo un singolare affresco in un angolo seminascosto, nei pressi della cappella che custodisce il rarissimo ritratto di San Francesco: vi si ammirano immagini macabre e quasi surreali, che fanno pensare ad uno stile vicino a quello di Bosch piuttosto che alla scuola umbro-laziale, che invece segna principali i cicli pittorici del sito.
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Impressionante affresco nel Sacro Speco di Subiaco, di scuola umbro-laziale. La Morte è descritta come un orrendo cavaliere che colpisce a casaccio con la sua falce, lasciando spesso vivi i vecchi (che la invocano) e uccidendo i giovani (che mai sospetterebbero l’avvicinarsi della fine): un’impietosa metafora della precarietà della vita che ci fa riflettere sull’importanza spesso esagerata che diamo quotidianamente a cose vacue.
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La suggestiva Torre di Selce si erge nel paesaggio della Via Appia Antica a poca distanza dal Sepolcro dei Grifi. La struttura venne edificata nel XII dalla famiglia Astalli per il controllo del territorio circostante e prende il nome dal materiale di cui è composta. Già ritratte da numerosi viaggiatori nel corso dei secoli, ancor oggi le scenografiche rovine offrono spunti straordinari per la pittura e per la fotografia.
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Ci troviamo nel cuore della Teverina Viterbese, in quella parte della Valle del Tevere che segna per qualche decina di chilometri il confine fra Lazio ed Umbria, in un suggestivo paesaggio ora dolce ora segnato da aspri calanchi. Giungere a Montecalvello è molto semplice facendo l’A1. Si esce al casello di Attigliano, si prende per Bomarzo, si attraversa il fiume entrando nel Lazio e si prosegue brevemente sulla SP Valle del Tevere in direzione di Civitella-Castiglione. Ad un certo punto un’indicazione a sinistra per Grotte di Santo Stefano permette di inoltrarsi in una campagna dall’aspetto “antico”, fra terre arate e verdi colline rigate da calanchi argillosi; superata la chiesetta rurale della Madonna dell’Aiuto, si inizia a risalire il colle fino ad arrivare al piccolo borgo, odierna frazione di Viterbo.
La storia di questo minuscolo insediamento fortificato è tuttora poco chiara. Si pensa che la sua edificazione avvenne tra il 774 ed il 776 su ordine del re longobardo Desiderio, ma le uniche notizie certe si hanno soltanto dalla prima metà del Duecento, quando il castello risulta sotto la potestà della viterbese famiglia ghibellina dei Calvelli, donde deriva l’attuale toponimo. Venne poi la signoria dei Monaldeschi del ramo del Cane, cui succedettero nella prima metà del Seicento i Pamphili con la figura di Donna Olimpia Maidalchini, la potente cognata del papa Innocenzo X, nel 1664 i Raimondi e poi i Doria-Pamphili.
Passato più recentemente in altre mani, nel 1970 il castello fu infine acquistato dal conte Balthasar Klossowski de Rola, pittore franco-polacco contemporaneo celebre con il nome di Balthus, la cui famiglia ne è tuttora proprietaria. Questo grande artista, dall’animo raffinatissimo, fu definito dall’amico Federico Fellini “un signore del Rinascimento”: e la percezione di arcana bellezza che si ha in molti luoghi del Lazio, dove visse per anni, lo colpiva profondamente.
Del resto, visitare Montecalvello significa, al di là delle frasi fatte, compiere un viaggio a ritroso nel tempo. Il castello, varcata la porta d’accesso, appare un luogo musealizzato in cui gli elementi della “modernità” non hanno mai avuto accesso. Come nella non lontana Civita Bagnoregio, vi si può avere la visione quasi perfetta di un villaggio del XVI secolo pervenutoci praticamente intatto.
Nessun abitante fisso, o almeno così ci è parso, tranne forse un guardiano e i suoi gatti. Un guardiano per un paese? Strano, si potrebbe pensare. In realtà Montecalvello non è un “normale” paese ma un vero e proprio borgo-castello privato, in cui le poche abitazioni erano e sono esclusivamente a suo servizio: si vedono una chiesetta (dedicata a Santa Maria), alcune costruzioni in cui risiedevano gli operai che lavoravano per i proprietari e il grandioso palazzo signorile, elegante rifacimento quattro-cinquecentesco di un maniero più vetusto, che all’interno custodisce affreschi e mobili preziosi. L’angolo più affascinante è senza dubbio Piazza Castello, una sorta di corte interna ove prospettano la facciata del palazzo e quelle di casette assai più dimesse con i loro rustici portoni.
A Montecalvello, insomma, ci si trova immersi in un luogo rimasto fermo all’epoca rinascimentale (di cui si scorgono i dettagli di grottesche all’interno di una loggia affacciata sul vuoto), che emana quella “nobile decadenza” così tipica di certi centri della Tuscia cimina (Bomarzo, Vignanello, Caprarola, Soriano, ecc…). E’ un’attrazione che può essere fatale per lo spirito imbevuto di letture o ascolti romantici, ma che può addirittura respingere coloro i quali siano estranei a quel tipo di formazione culturale e di gusto estetico. Montecalvello è di certo inadatto a chi voglia “divertirsi” nell’accezione più pragmatica del termine: non ci sono negozi, non ci sono ristoranti; nulla, nemmeno un bar.
Anche il paesaggio offre sensazioni romantiche. Affacciandosi dalla piazza, si scopre un intricato bosco misto dai toni vagamente malinconici, la cosiddetta “Macchia di Piantorena”, ove un tempo sorgeva il villaggio etrusco-romano di Torena. Da lato opposto del borghetto, invece, un piccolo giardino su cui svetta una torre permette di godere una vista molto più ampia verso il Tevere, con i querceti che in basso lasciano il posto ad ordinati campi coltivati. Si scorge anche una robusta torretta sul pendio a noi prospiciente, segno che nel Medioevo la zona dovette essere munita e presidiata da una fitta rete di fortilizi.
Per carpirne l’essenza, bisognerebbe andare a Montecalvello in una di quelle fredde mattine di nebbia autunnale, quando l’atmosfera è irreale e quasi ci si dimentica di essere nel XXI secolo. Alla vista si uniscono l’udito e l’olfatto, in un’osmosi di sensi difficile da provare nel vivere quotidiano: l’odore denso delle antiche pietre di tufo, pregne di umidità, convive con quello di piccoli camini accesi, di muschi e alberi dalle mille sfumature che invadono l’aria; su tutto domina il silenzio. E l’abbandono, la solitudine che ci circondano divengono occasione per pensieri e sensazioni speciali.
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