Tutti conoscono il Sacro Speco di Subiaco per la figura di San Benedetto, per la sua architettura rupestre, per il suo suggestivo paesaggio. Ma questo monastero abbarbicato su una falesia a strapiombo sulla Valle dell’Aniene è anche uno straordinario “serbatorio” della pittura medievale del Lazio e del Centro Italia. Nella foto vediamo un singolare affresco in un angolo seminascosto, nei pressi della cappella che custodisce il rarissimo ritratto di San Francesco: vi si ammirano immagini macabre e quasi surreali, che fanno pensare ad uno stile vicino a quello di Bosch piuttosto che alla scuola umbro-laziale, che invece segna principali i cicli pittorici del sito.
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Proto-Surrealismo al Sacro Speco
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La Morte
Impressionante affresco nel Sacro Speco di Subiaco, di scuola umbro-laziale. La Morte è descritta come un orrendo cavaliere che colpisce a casaccio con la sua falce, lasciando spesso vivi i vecchi (che la invocano) e uccidendo i giovani (che mai sospetterebbero l’avvicinarsi della fine): un’impietosa metafora della precarietà della vita che ci fa riflettere sull’importanza spesso esagerata che diamo quotidianamente a cose vacue.
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Torre di Selce sulla Via Appia Antica
La suggestiva Torre di Selce si erge nel paesaggio della Via Appia Antica a poca distanza dal Sepolcro dei Grifi. La struttura venne edificata nel XII dalla famiglia Astalli per il controllo del territorio circostante e prende il nome dal materiale di cui è composta. Già ritratte da numerosi viaggiatori nel corso dei secoli, ancor oggi le scenografiche rovine offrono spunti straordinari per la pittura e per la fotografia.
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La nobiltà decadente di Montecalvello, dimora segreta di Balthus
Ci troviamo nel cuore della Teverina Viterbese, in quella parte della Valle del Tevere che segna per qualche decina di chilometri il confine fra Lazio ed Umbria, in un suggestivo paesaggio ora dolce ora segnato da aspri calanchi. Giungere a Montecalvello è molto semplice facendo l’A1. Si esce al casello di Attigliano, si prende per Bomarzo, si attraversa il fiume entrando nel Lazio e si prosegue brevemente sulla SP Valle del Tevere in direzione di Civitella-Castiglione. Ad un certo punto un’indicazione a sinistra per Grotte di Santo Stefano permette di inoltrarsi in una campagna dall’aspetto “antico”, fra terre arate e verdi colline rigate da calanchi argillosi; superata la chiesetta rurale della Madonna dell’Aiuto, si inizia a risalire il colle fino ad arrivare al piccolo borgo, odierna frazione di Viterbo.
La storia di questo minuscolo insediamento fortificato è tuttora poco chiara. Si pensa che la sua edificazione avvenne tra il 774 ed il 776 su ordine del re longobardo Desiderio, ma le uniche notizie certe si hanno soltanto dalla prima metà del Duecento, quando il castello risulta sotto la potestà della viterbese famiglia ghibellina dei Calvelli, donde deriva l’attuale toponimo. Venne poi la signoria dei Monaldeschi del ramo del Cane, cui succedettero nella prima metà del Seicento i Pamphili con la figura di Donna Olimpia Maidalchini, la potente cognata del papa Innocenzo X, nel 1664 i Raimondi e poi i Doria-Pamphili.
Passato più recentemente in altre mani, nel 1970 il castello fu infine acquistato dal conte Balthasar Klossowski de Rola, pittore franco-polacco contemporaneo celebre con il nome di Balthus, la cui famiglia ne è tuttora proprietaria. Questo grande artista, dall’animo raffinatissimo, fu definito dall’amico Federico Fellini “un signore del Rinascimento”: e la percezione di arcana bellezza che si ha in molti luoghi del Lazio, dove visse per anni, lo colpiva profondamente.
Del resto, visitare Montecalvello significa, al di là delle frasi fatte, compiere un viaggio a ritroso nel tempo. Il castello, varcata la porta d’accesso, appare un luogo musealizzato in cui gli elementi della “modernità” non hanno mai avuto accesso. Come nella non lontana Civita Bagnoregio, vi si può avere la visione quasi perfetta di un villaggio del XVI secolo pervenutoci praticamente intatto.
Nessun abitante fisso, o almeno così ci è parso, tranne forse un guardiano e i suoi gatti. Un guardiano per un paese? Strano, si potrebbe pensare. In realtà Montecalvello non è un “normale” paese ma un vero e proprio borgo-castello privato, in cui le poche abitazioni erano e sono esclusivamente a suo servizio: si vedono una chiesetta (dedicata a Santa Maria), alcune costruzioni in cui risiedevano gli operai che lavoravano per i proprietari e il grandioso palazzo signorile, elegante rifacimento quattro-cinquecentesco di un maniero più vetusto, che all’interno custodisce affreschi e mobili preziosi. L’angolo più affascinante è senza dubbio Piazza Castello, una sorta di corte interna ove prospettano la facciata del palazzo e quelle di casette assai più dimesse con i loro rustici portoni.
A Montecalvello, insomma, ci si trova immersi in un luogo rimasto fermo all’epoca rinascimentale (di cui si scorgono i dettagli di grottesche all’interno di una loggia affacciata sul vuoto), che emana quella “nobile decadenza” così tipica di certi centri della Tuscia cimina (Bomarzo, Vignanello, Caprarola, Soriano, ecc…). E’ un’attrazione che può essere fatale per lo spirito imbevuto di letture o ascolti romantici, ma che può addirittura respingere coloro i quali siano estranei a quel tipo di formazione culturale e di gusto estetico. Montecalvello è di certo inadatto a chi voglia “divertirsi” nell’accezione più pragmatica del termine: non ci sono negozi, non ci sono ristoranti; nulla, nemmeno un bar.
Anche il paesaggio offre sensazioni romantiche. Affacciandosi dalla piazza, si scopre un intricato bosco misto dai toni vagamente malinconici, la cosiddetta “Macchia di Piantorena”, ove un tempo sorgeva il villaggio etrusco-romano di Torena. Da lato opposto del borghetto, invece, un piccolo giardino su cui svetta una torre permette di godere una vista molto più ampia verso il Tevere, con i querceti che in basso lasciano il posto ad ordinati campi coltivati. Si scorge anche una robusta torretta sul pendio a noi prospiciente, segno che nel Medioevo la zona dovette essere munita e presidiata da una fitta rete di fortilizi.
Per carpirne l’essenza, bisognerebbe andare a Montecalvello in una di quelle fredde mattine di nebbia autunnale, quando l’atmosfera è irreale e quasi ci si dimentica di essere nel XXI secolo. Alla vista si uniscono l’udito e l’olfatto, in un’osmosi di sensi difficile da provare nel vivere quotidiano: l’odore denso delle antiche pietre di tufo, pregne di umidità, convive con quello di piccoli camini accesi, di muschi e alberi dalle mille sfumature che invadono l’aria; su tutto domina il silenzio. E l’abbandono, la solitudine che ci circondano divengono occasione per pensieri e sensazioni speciali.
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